Da frontman de Le Endrigo, già protagonisti di TOH Magazine, a solista, così Gabriele Tura aka GattoToro esplora con ironia e vulnerabilità amori, ricordi e quotidianità nel suo primo album solista “Quanti amori che ho, nessuno che capisca un accidente” (La Tarma), che unisce il cantautorato alla stand-up comedy.
Il debutto di GattoToro raccoglie canzoni nate dalla libertà di scrivere per sé stesso, dialogando con l’io bambino che convive con l’adulto, trasformando gesti quotidiani in immagini poetiche e racconti intimi, situazioni imbarazzanti in atti liberatori. In questa intervista Gabriele apre il suo mondo intimo, fatto di emozioni autentiche, ironia e vulnerabilità, rivelando il dietro le quinte del processo creativo, dei concerti e della vita tra passato e presente con quell’ironia e il sex appeal che da sempre lo contraddistinguono.

“Quanti amori che ho, nessuno che capisca un accidente” è un titolo che sembra oscillare tra ironia e vulnerabilità: qual è la prima immagine o sensazione che volevi evocare quando lo hai scelto?
Io sulla gola ho tatuato “Solo canzoni d’amore” quando ho capito che è l’unico tipo di musica che mi interessa. Poi l’amore può essere per un amico, per una persona che ora si odia, per un’idea, per un ricordo. L’importante che il motore sia una forma d’amore, inteso come sentimento che ti muove in modo incontrollabile, se no non mi interessa.
Una notte ho trovato la frase che da il titolo al disco di GattoToro scritta nel muro di un bagno e mi è sembrato un riassunto perfetto. Non sono sicurissimo fosse proprio proprio quella perché ero in condizioni non ottimali quando l’ho trascritta sul telefono, ma l’idea è quella.
Nel passaggio da Le Endrigo a GattoToro, qual è stata la libertà creativa più inaspettata che hai scoperto lavorando da solo?
Con la band abbiamo sempre scritto musica perché volevamo portarla sul palco, era lì che ci sentivamo completi. Non che non scrivessimo cose personali o sentite, ma era sempre in un’ottica di condivisione successiva dal vivo, non avremmo mai fatto un album senza pensare di portarlo live.
Invece queste canzoni sono nate semplicemente perché mi sono accorto che mi faceva sentire vivo mettere su carta alcune cose che mi tiravo dietro da anni. È quello che dicono sempre tutti ma a me invece non era mai capitato in modo così diretto, ora ho capito.

L’idea dell’ “io bambino” che convive (e spesso confligge) con l’adulto ritorna spesso nei tuoi racconti: in che modo questo dialogo interiore ha modellato la scrittura del disco?
In realtà non è stata una cosa voluta ma proprio ieri durante un concerto ho detto che se non avessi fatto le elementari non avrei scritto almeno tre quarti di disco.
Forse sono solo infantile, oppure ero un bambino vecchio e quello che ho fatto in quegli anni si proietta e mescola perfettamente con la mia dimensione adulta.
In generale quando penso a una situazione che sto vivendo di cui voglio cantare trovo spesso una versione parallela legata alla mia infanzia.
Ogni frase nasce da qualcosa di realmente accaduto: c’è un verso che hai esitato a lasciare perché ti sembrava troppo esposto o troppo sincero?
Sono un pochino combattuto riguardo al fatto che in diverse canzoni ci siano dei riferimenti a persone che onestamente non ricordo con piacere o comunque non hanno significato particolarmente nella mia vita a conti fatti, ma erano legate a immagini che mi piaceva raccontare.
So che è una cosa molto infantile ma non mi fa piacere pensare che magari possano ascoltare e dire “parla di me, allora mi pensa ancora”.
Fortunatamente nessuna canzone parla di una persona specifica, quindi nella stessa strofa ci può essere un’immagine legata al mio vissuto con una persona e subito dopo con un’altra senza che ci sia una separazione netta.
Eccezion fatta per la canzone che chiude il disco “Canzone di San Valentino”, che non mi pento di avere scritto ma sicuramente non dedicherei mai alla persona che l’ha ispirata.
Quella volevo toglierla, ma alla fine le persone che mi hanno seguito nella realizzazione del disco mi hanno convinto del fatto che le canzoni sono più importanti di quello che le scatena.
Forse è vero, forse no, lo scopriremo continuando a scrivere. Minchia, sembro cattivissimo in questa risposta.

In “L’io bambino odia l’adulto”, se questa canzone fosse una scena di un film, che atmosfera visiva avrebbe e chi starebbe parlando a chi?
Parlo sempre a me stesso, è un dialogo eterno e insopportabile. Per me tutto il disco, o almeno la maggior parte, è la scena finale di Juno in cui cantano “Anyone else but you”.
In diversi brani usi immagini poetiche per raccontare cose “stupide” o quotidiane: qual è la canzone in cui senti di aver trasformato meglio un gesto minimo in qualcosa di narrativo o emotivo?
Non è nel disco ma è uscita prima: Panino d’idiota con Casadilego. L’ho scritta pensando a vari momenti di piccolissima quotidianità ma allo stesso tempo a quel mostro colossale che è la convivenza.
Quando l’ho fatta sentire a Elisa per proporle di cantarla insieme mi ha detto questa frase che trovo assolutamente calzante: “è piena di parole sgradevoli che la rendono dolcissima”.

C’è un brano del disco che hai scritto di getto, come se fosse già lì, e uno invece che hai limato all’infinito? Cosa li differenzia nel tuo processo?
Canzone di San Valentino l’ho scritta il giorno stesso in cui l’ho cantata dal vivo, e registrata appunto live durante quel concerto. Invece per esempio Mille modi idioti di morire è stata più lunga perché ho cercato in giro gli episodi più buffi in cui la gente è passata a miglior vita ma allo stesso tempo non tutte si prestavano ad essere raccontate in una frase.
In generale il processo è sempre uguale, finché non mi viene un’idea del tipo “mi piacerebbe parlare di questa cosa” non si muove una foglia. Poi dipende da quanto l’idea è facile o difficile da mettere nei confini di una canzone.
Comunque arrivo sempre a uno scheletro completo e poi divido le frasi che trovo riuscite con quelle che sono sacrificabili e queste ultime rimangono costantemente in discussione fino alla fine. Idealmente, non sempre, arrivo a registrare che non c’è più nessuna frase sacrificabile. Idealmente…
Molti pezzi guardano al passato con una tenerezza disillusa: che rapporto hai oggi con le versioni precedenti di te stesso?
Come dicevo prima mi rendo conto che moltissimi dei miei momenti adulti hanno un parallelo in versione di ricordi d’infanzia. Ripeto, ero un bambino vecchio e sono un adulto infantile, in qualche modo ha un senso.

Portare un progetto così intimo sul palco significa esporre anche le tue crepe: qual è la sensazione dominante quando canti questi pezzi davanti al pubblico?
Io sono una persona molto timida e sul palco compenso ponendomi in modo diametralmente opposto. Non è finzione, è proprio il mio modo di reagire alla vulnerabilità.
Questo mi porta a interagire tantissimo con chi ho davanti, e mi sento sempre sulle spine: se sei venuto a vedermi probabilmente le mie canzoni non ti dispiacciono, ma magari una frase detta tra un pezzo e l’altro può irritarti.
In generale mentre suono penso a mille cose senza sosta, c’è un continuo borbottio nella mia testa che fa da sottofondo; per fortuna le canzoni sono facili e le faccio quasi senza pensarci, anzi se mi fermo a pensare facilmente sbaglio il testo.
È vero che hai cominciato questa avventura per caso?
Diciamo che in generale tendo a scrivere sempre, se mi viene un’idea me la segno e la registro (poi magari resta lì per mesi). Il caso è più che altro quello che mi ha portato a tenere queste canzoni per me anziché usarle con la band.

Viviamo in un mondo che spesso sembra distopico, un luogo reale in cui diritti che davamo per scontati vengono erosi o negati: quanto questa percezione del presente entra nel tuo modo di scrivere, e in che misura senti che la tua musica possa essere una forma di resistenza personale?
Questo nelle mie canzoni magari emerge poco, perché si riferiscono a un microcosmo talmente ridotto che ascriverei con serenità ai cazzi miei più intimi, a volte anche banali. In realtà però proprio perché racconto di cose quotidiane il mondo (brutto) che ci sta intorno contamina qualsiasi narrazione.
E io non mi oppongo a questo, perché anche se non voglio (né posso) dare lezioni a nessuno ci tengo che alcuni principi fondamentali in cui credo con forza siano esplicitati e non fraintendibili tanto quanto le sfighe in amore che canto.

La tua musica sembra muoversi su una linea sottilissima tra cantautorato e stand-up comedy, come se fosse tragica e comica nello stesso respiro: quanto è consapevole questo equilibrio e come lo costruisci quando scrivi?
Diciamo che è una cosa che è capitata naturalmente e di cui sono molto contento, penso sia una formula che mi rappresenta moltissimo, è lo stesso modo in cui mi pongo nel quotidiano con gli altri.
Sto cercando di non pensarci troppo perché vorrei continuare a scrivere in questo modo ma con spontaneità, ho paura di trovarmi ad inseguire artificiosamente questa cosa perché mi è piaciuta e in questo modo di perderla.


L’ultimo album di cui ti sei innamorato?
Allora, storia lunga. Quando ho finito il disco ho detto: il prossimo so già come voglio che suoni, ho tutto in testa, poi le canzoni vediamo, ma il suono deve essere quello. Archi, cinematografico, pochissima chitarra, voglio una cosa tra Disney e “Sono tre parole” di Vittorio De Sica.
Siccome nella mia testa era chiarissimo ma non sapevo se sarei mai riuscito a spiegarlo bene ero un pochino preoccupato. Poi all’improvviso esce un pezzo che anticipa il nuovo disco di Micah P Hinson “Oh, sleepyhead” ed è LETTERALMENTE quello che avevo in testa, perfetto, identico.
Ora, il disco poi non è uno dei suoi che ho preferito, ma ho amato profondamente questa coincidenza cosmica per cui il disco che volevo plagiare è uscito esattamente mentre finivo il mio e fantasticavo sul prossimo.
Tra l’altro in modo diverso questa cosa degli archi l’ha appena fatta anche Rosalìa con LUX e l’album mi è piaciuto tantissimo, quando è partita quella in italiano ero in auto di notte e mi è venuta una pelle d’oca lungo la schiena che non sentivo da un bel po’.
Però Motomami non si batte, credo sia uno dei midi 10 dischi preferiti di sempre, non esagero.
Foto: Alex Vaccani & Alessandro Marzo

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